venerdì 29 ottobre 2010

Fiorella D'Errico


Autori inediti ogni tanto fanno bene a Blanc perché il blog recupera una delle sue ragioni: essere faro, sia pur modesto, per chi cerca uno scambio sincero, senza ipocrisia. Questo vale anche per chi, come Fiorella D'Errico, insegna italiano e dunque incontra la letteratura per professione. La scrittura creativa è infatti un'altra cosa, come ben ha sperimentato chi tenta di praticarla con umiltà. La pagina bianca fa resistenza, trattiene per sé le parole che vorremmo seminare, le assorbe tutte e resta bianca, spesso. La sfida è superare l'accecamento, avere il coraggio di donarle agli altri, purché – e qui entro in merito alla poetessa di oggi – siano lettori sinceri, belli come amanti, che non chiedano alle parole-spose che di lasciarsi avvicinare. Ciò che troveranno, ci dice la D'Errico, saranno i tremori, le domande, il corpo bello del testo in perfetta corrispondenza con la vita di chi le ha depositate nell'harem. l'immagine è esotica, e l'aspettativa molto femminile, vissuta tra l'attesa e il desiderio, due tensioni che qui trovano anche altri luoghi, inaspettati, sempre legati al corpo: la macelleria, per esempio, ma evitando vicinanze con l'intensa immaginazione erotica di Alina Reyes ne Le bucher, scegliendo invece la via interiore di un corpo esposto alla vergogna degli sguardi, denudato dalla morte e da un certo tipo di civiltà, nella quale i deboli sono appesi al "gancio". La mia poesia cerca coniugazione nella sensibilità del lettore ed io sono esposta al venti freddi dell'ordinario, sembra dirci l'io lirico della D'Errico, epigono di tanta letteratura moderna, il cui perno, direi, è l'inetto primonovecentesco. Forse di mezzo c'è anche un amore perduto, per cui la debolezza non è fisiologica o letteraria, bensì d'occasione; sta di fatto che queste poesie, prima di fare i conti con il genere, sono una voce che chiede accoglienza ad un lettore che abbia la capacità di guardare oltre le apparenze, di un "estraneo premuroso", lei stessa estranea, inetta, appunto, "martire", cui contrappone qualche raro passaggio autoironico ("voler assomigliare alla Merini") che non guasta in questo scenario teso. Ci potremmo chiedere se tutto questo basti a giustificare la poesia. Evidentemente no, malgrado, del poetico, siano ben riconoscibili alcuni tratti: un dettato discretamente asciutto, scolpito al punto da proporre una doppia interlinea, uno sviluppo grammaticale ma non monotono nella scansione, ogni tanto dominato dalla prosodia; tutte scelte che attestano la fiducia nella comunicazione, come appunto si diceva a proposito dei temi. La sua ricerca, tuttavia, non è ancora compiuta, nella misura in cui permangono ingenuità fonetiche (la facile rima baciata pelle-stelle; bella invece tutto-lutto) e una debolezza immaginativa, che preferisce prendere in prestito dalla realtà le immagini, limitandosi a descriverle, anziché crearne di nuove, più dense e analogiche. Si potrebbe rispondere che scegliere la realtà è già dichiarazione di poetica; tuttavia, basta leggere Verga per capire come l'invenzione sia fondante. Ho il sospetto, comunque, che certe soluzioni stilistiche si siano piegate all'urgenza emotiva, che siano state sacrificate in nome di una biografia da raccontare. Meglio sarebbe che fosse la biografia stessa a scriversi, a riscriversi nel testo, a rifarsi nuova e mai udita nella poesia, senza bisogno di un narratore esterno, che la imbrigli in figure note (è il rapporto tra chi scrive e chi è scritto in un testo poetico: vecchia questione che ogni poeta deve sperimentare in proprio e risolvere, se vuole trovare la propria voce). Ciò detto, e riconosciute consapevolezza e lima, invito Fiorella a non accontentarsi dei risultati raggiunti, a costo di rimanere senza parole da amare, a costo di lottare con queste spose, così che finalmente parlino malgrado lei.




dalla raccolta inedita Ciclotimie



1.

Come donne velate

in un harem

le mie poesie sono malate

di solitudine e fiabe.



Spose in attesa

della prima notte

chiara, senza vento

in cui spogliarsi di tutto

agli occhi dell’amore

a lungo immaginato.




2.


Mi sembra di averne tante di parole

eppure, ogni volta, frugando

non ho che polvere nelle tasche

cucite a pelle.



E non è di stelle.



Sono rimasugli

cose sfaldate

al sonno che mi insegue,

cellule invisibili degli eventi

che mi hanno fatta così

come sono.



Piccoli resti

da inanellare sul foglio

e legarci un discorso di vita.




4.


Ne resta il segno, vedi

quando sconfiggi il chiodo.



Nessuno nota

quel piccolissimo vuoto

a meno che l’occhio

sia un estraneo premuroso

trapassi le risate e scopra

quanto sappiano mentire i muri

per la pietà dei morti.




5.


In macelleria, impietrita dalla carne

rossosangue

ero misteriosamente attratta

non so da cosa

ancora me lo chiedo adesso

che sono anch'io un martire, pendente

al gancio nero dei muri

freddo e poi vivo

del liquido intatto.



Forse è il pensiero

di come apparteneva, quella carne

ora così insensibile alla lama

all'esposizione di sè

nuda dalla vergogna



quale il senso del lutto

mischiato ai ricordi, le piaghe, tutto




6.


Nel vuoto incuneati i corpi

nuotano sperduti e a un punto

si incrociano in assenza

di predestinazione

invenzione dei pensieri stanchi

alle fermate alle stazioni affollate

piccole passioni

dalla involontà divina

i biglietti le destinazioni

le improvvise agnizioni

sesso e soluzione

racconti



(eri tu il volto fratello

separato alla nascita, tu

sull’altro lato

dolcezza di sguardo

e un timido cappello?)




7.


E non schiara

questo fondamento scuro

di vergogna strana

che mi accompagna.



Se non quando il corpo

è tutto nel foglio

davanti a me bianco

poi macchiato dalla vita

libero di sé stesso

testimone solo.




9.


A gambe aperte

ogni mese del mese

del mese che torna

finché si pregherà

che non sia chiuso

il giorno



Questo grumo

corpo sempre uguale

monstruum meraviglioso

di buio e di luce

il cromosoma a croce.




Ma per un’ora

sapere cos’è dentro un uomo

bagnare al vento i muri

compenetrare


E un seme


un seme nel cavo

da asciugare.




10.


Il respiro manca sempre

come una riserva scarsa

trivello al fondo del torace

a fiati lunghi, ma

lo zampillo non ha altezza.



Mia madre direbbe

Sono le sigarette



Non ci credo

è la consapevolezza

voler assomigliare alla Merini.




11.


Alzando il collo

come per un miracolo di uccello

spostavo il piede sul confine d'alberi.

Già scritti alla gola suoni e suoni

nell'idioma del ventre, spiegavo a me sola

e bastava.



Poi vincono le cose giuste.

E camminare di sbieco

ombra delicata, la madre

usare i mezzi consentiti

la buona figlia senza voce


ingoiarmi fino a tardi


toccare i piedi con la schiena


bruciare la luce.




12.


Dal letto alla porta, sui piedi

colpevoli

lo spazio bianco i gesti

in camiciato verde - il respiro

perché ancora c'era?



Uno sfregio più alto

l'ho pregato alla mano

uno scavo più al fondo.

Mi aprivo ingolando

lo prendo io il male



E non avevi voce

e non avevi niente altro

che un sangue immondo di madre.




Fiorella D’Errico vive e lavora a Roma. Pubblica su web al seguente indirizzo personale: http://www.fiorelladerrico.wordpress.com/, e ha una sua pagina su Facebook.
Suoi testi sono apparsi sui blog letterari: La stanza di Nightingale, VDBD – Via delle belle donne, Rosso Venexiano, Vir – us.
Lavora alla raccolta Ciclotimie

5 commenti:

  1. Grazie infinite a Stefano Guglielmin per questo prestigioso spazio, e per la sua recensione a dir poco completa e - per me- di grande incoraggiamento.

    Fiorella

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  2. Una scrittura viva, e concordo in tutto con quello che ne dice st.. Mi piace molto il fatto che, a differenza di molta poesia "femminile" di adesso, la fisicità non venga esibita ma vissuta.

    francesco t.

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  3. Grazie a francesco t.

    F.

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  4. spero lo sia davvero. anche le parola di Francesco ti indicano una direzione.

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  5. Rileggendo, mi ritrovo lontana e vicina. Ma soprattutto, in cuor mio ti ringrazio sempre Stefano :-)
    Ciao e ad maiora!

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