giovedì 12 agosto 2010

Discorso sul metodo in Angelo Guglielmi

Angelo Guglielmi, classe 1929: anagrafe perfetta per accompagnare sin dall’inizio la nascita del “Gruppo 63”, per segnarne lo sviluppo, ma anche per registrarne la fine, senza rancori e senza nostalgie. E ciò per attestata fedeltà al principio ispiratore dell’intero suo lavoro: quello di indicare alla scrittura il modo d’essere contemporanea. Per comprenderne la coerenza, seguiamone schematicamente i passaggi, rinviando l’approfondimento dei primi due momenti sotto indicati allo studio di Lucio Vetri, Letteratura e caos. Poetiche della “neo-avanguardia” italiana degli anni Sessanta, Mursia, 1992, II ed., pp.156-163).

Atto primo

In Avanguardia e sperimentalismo (Feltrinelli, 1964), Guglielmi invita gli scrittori a “stanare” la realtà, a toglierla da quel limbo materico in cui la morte delle ideologie l’ha relegata. Una volta trovata - aggiunge - non serve alcun dialogo con essa; occorre invece il sano esercizio del disvelamento, del disseppellimento.
In quello scorcio epocale - gli inizi degli anni Sessanta - egli attribuisce dunque alla letteratura il compito di costruire un discorso che metta in fibrillazione i contenuti già dati, per offrirli al lettore in un impasto inaudito, sorprendente, spiazzante, cosicché essi siano concepibili nella loro valenza preideologica. Convinto che la lingua possa mostrare quell’impasto, possa offrirlo al palato nella sua fluidità aleatoria e generante, nella sua nudità continuamente cangiante, Guglielmi invita il poeta-minatore a ricercare oltre le apparenze, in una vertiginosa reinvenzione della lingua e delle sue strutture, per slabbrare la rassegnata ripetizione delle convenzioni operata non soltanto dal potere capitalista, ma anche dal Neorealismo.


Atto secondo

A questa figura, ne subentrerà presto un’altra, la cui elaborazione concettuale troverà completa maturazione ne La letteratura del risparmio (Bompiani, 1973). Si tratta di un progetto secondo il quale lo scrittore deve rinunciare a trovare il suono perfetto della materia, scegliendo invece d’incarnarsi nelle zone marginali della realtà storica, per dar voce al corpo, alla sua presenza concreta e muta. Il silenzio della materia assume così il ritmo grave d’un raccontare sfrondato da ogni tentazione barocca. L’impoverimento della lingua - per altro già annunciato in Vero e falso (Feltrinelli, 1968) - diventa, in questo prospettiva, lo strumento con il quale sottrarsi all’ideologizzazione ed agli equivoci d’ogni argomentare astratto. La parola si fa gesto - leggero, selvaggio, umorale, volgare, a seconda - e lo scrittore le dà licenza d’insediarsi sulla pagina, sapendola conseguenza d’un tremore che proviene dalla materia stessa che lo compone.

Guglielmi, d’altro canto, non sostiene che il Pasticciaccio gaddiano, d’esempio nella fase materica, sia stato superato dal Balestini di Vogliamo tutto o dalle Comiche di Celati; osserva semplicemente che il ’68 ha mutato la realtà storica e che la scrittura deve prenderne atto, rinnovandosi. In questo senso, nulla è cambiato nelle convinzioni del critico: la scrittura insegue il reale, modificando il proprio statuto in conformità dei modi in cui quest’ultimo si offre alla comprensione. Per tutti gli anni Sessanta e Settanta, in definitva, Guglielmi non ha fatto altro che inseguire coerentemente il topo vivacissimo del reale fra le pieghe meno volgari della letteratura contemporanea, sapendo di non poterlo catturare per sempre, proprio perché mutevole quanto le “combustioni” gaddiane e sempre più flebile come le voci che successivamente l’hanno nominato.


Atto terzo

In un breve saggio scritto nell’84/85, contenuto in appendice 1 a Trent’anni di intolleranza (mia) (Rizzoli, 1995), Guglielmi si fa portavoce di una nuova scrittura, quella che intende farsi “esperienza della vita vissuta come una sopravvivenza. E’ l’esperienza del giorno dopo”, ci dice, quell’esperienza cioè che siamo costretti a vivere “a catastrofe totalmente compiuta” (Ivi, p.182). La realtà che ora Guglielmi ha in mente è maceria senza alcun mascheramento; il disastro non deve perciò essere dissepolto da un apparenza ordinata, e nemmeno mimato: esso costituisce invece la condizione più immediata del vivere quotidiano, ciò che è massimamente palese. In questa prospettiva, lo scrittore davvero contemporaneo abiterà in esso in un disincanto lucido e impietoso, in una “dolorosa libertà” finalmente “acquistata” (Ivi, p.183). E’ in conclusione di questo specifico assunto, nel momento in cui deve spiegare in che cosa consista la libertà dello scrittore, che Guglielmi apre ad una possibilità inedita fino agli anni Settanta, rispetto al modo di concepire il rapporto parola-realtà. E lo fa sotto un duplice aspetto: 1) restituendo al soggetto (allo scrittore) un’autenticità capace di interagire immediatamente con il reale, senza doverlo prima dissotterrare com’era invece nella fase materica (Ivi, p.184); 2) rivalutando la forza della tradizione, nel convincimento che - come ribadisce con più chiarezza altrove - il passato mantenga in essere delle possibilità ancora feconde di prospettive, capaci di innescare cortocircuiti inediti nel presente, e non ottenibili altrimenti (Ivi, p.171). Probabilmente si tratta, volendo trovare la parola esatta per definire queste possibilità irrealizzate, di quelle che Ch. Renouvier, nel suo saggio Uchronie, l’utopie dans l’histoire (1876) chiamò, appunto, “ucronie”. Guglielmi non nomina il neocriticista francese; recupera però Calvino, là dove quest’ultimo afferma: “Il rifiuto del passato prossimo è la condizione necessaria per il ricupero del passato dimenticato, il solo che favorisca l’espressione del nuovo” (Ibidem). Che cosa in concreto voglia dire questo “ricupero”, questa remissione privata capace d’innescare la novità della propria scrittura, Guglielmi lo aveva già esemplificato: “Gadda... - dice con ragione - faceva i conti con gli scapigliati... Moravia con il grande romanzo europeo dell’Ottocento; Buzzati con Kafka; Manganelli con i secentisti; Arbasino o Pasolini con Gadda ecc. ecc.”(Ivi, p.161).
Qui Guglielmi sorprende di nuovo, proprio perché la parola, che l’autore contemporaneo dovrebbe cercare, non scava più nel reale, bensì in altra parola. E’ un dialogo da libro ad autore, un interrogare che affonda in altro, precedente, interrogare. In questo senso, lo scrittore amato da Guglielmi dovrebbe diventare ermeneuta o, meglio, ‘ermenauta’: navigatore nella biblioteca-tradizione, carico di domande, d’urgenze, di dubbi, dolorosamente libero, appunto, di scegliersi gli interlocutori più appropriati, per poi dar vita alla propria, originale, opera scrittoria. Il viaggio in terra del poeta-minatore dei primi anni Sessanta è diventato ora viaggio nel tempo, un tempo scritto, un tempo-libro, l’unico autenticamente vero dopo “la catastrofe totalmente compiuta” del tempo storico.

(inedito, estate 2000)

4 commenti:

  1. Sono assolutamente d'accordo sull'ultimo periodo di Guglielmi, quello in cui sostiene che ogni interrogare debba necessariamente affondare le proprie radici su un precedente interrogare; fare i conti con il passato dimenticato. È l'unico modo per rendere possibile quel superamento che, altrimenti, si limiterebbe ad uno sterile avanguardismo a tutti i costi che non aggiunge in realtà nulla di nuovo a ciò che vorrebbe superare.
    È la questione dei "maestri" che spesso mi è capitato di sostenere in varie discussioni: una esigenza che personalmente sento di avere fortissima ma che non possiede al momento una generale dimensione appropriata (vedi la crisi d'identità degli intellettuali).
    Non fare i conti con il passato è come pensare di fare un percorso, tracciare una linea senza un punto di partenza, e rimanere fermi in un punto senza rendersene conto. Almeno fino a quando il punto non implode o esplode, a seconda dei diversi casi.
    Dove invece non mi trovo d'accordo è nel ruolo della letteratura di "cacciatrice" della realtà. Più che inseguirla, a mio avviso, la letteratura dovrebbe rifuggire la realtà - almeno quel tipo di realtà sensorialmente percepita e scientificamente provata. Inseguire la realtà evitando di cadere nelle ripetizioni del Neorealismo (che è quello che a mio avviso è accaduto e tutt'ora sta accadendo) è uno sforzo che non crea, ma produce (in senso scientifico-capitalistico) una letteratura (arte in genere) cervellotica, concettuale, retorica che vuole e deve essere spiegata per potersi garantire uno spazio di sopravvivenza.
    Luigi B.

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  2. margherita ealla14/8/10 12:21

    ullallà che titolo! :)

    e ma allora per stuzzicare,
    non avendo argomenti per approfondire, epperò non essendo io d'accordo con la seconda parte dell'intervento di Luigi (che saluto!), quando dice "la letteratura dovrebbe rifuggire la realtà - almeno quel tipo di realtà sensorialmente percepita" (tralascio prudentemente :) il "scientificamente provata"...)
    lascio, a provocazione :D, quello che Cartesio scrisse in una lettera ad Elisabetta di Boemia
    "e io credo che questo capriccio di fare versi provenga da una forte eccitazione degli spiriti animali, la quale potrebbe portare in completa confusione l'immaginazione di quelli che non hanno un cervello ben collegato, ai robusti non fa che infondere un po' più di fuoco e renderli inclini alla poesia"
    (ovvio non parlava dei poeti..., ma del capriccio di fare versi :))

    Buon Ferragosto!

    ciao

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  3. margherita ealla14/8/10 12:28

    giusto per nn apparire del tutto dissacrante e fuori luogo, aggiungo
    che il succo di indagine, sul quale cioè soffermarsi ulteriormente, di questo tuo bel post, sia
    questo passaggio.
    "che l’autore contemporaneo dovrebbe cercare, non scava più nel reale, bensì in altra parola"

    arriciao

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  4. si potrebbe ragionare sul fatto che la parola è reale, sugli effetti reali che produce, sul fatto che la materia senza nome è estranea alla relazione gnoseologica, e sul fatto che mai possiamo prescindere dal reale, nemmeno quando fantastichiamo, e tanto altro ancora, ma so che voi due siete capaci di farlo anche da soli :-)

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