lunedì 8 febbraio 2010

Superare Leopardi?


Ricevo con grande piacere una lettera di Paolo Donini, che riprende quanto discusso l'altro giorno a Milano, durante la presentazione di Senza riparo. Un momento forte del confronto, sostenuto anche da Francesco Marotta, è stato intorno alla necessità o meno di ripensare Leopardi e sul senso di quel ripensamento, che io propongo nel saggio. Per rendere ragione della mia posizione, posto la lettera di Paolo, sintetizzandone soltanto l'introduzione. Successivamente pubblico la mia risposta, sperando che ciò dimostri che le nostre due idee sono molto simili.


Dopo aver ricordato che nei musei di molte città europee si usa esporre opere contemporanee vicino a quelle già canonizzate - "la Donna velata di Antonio Corradini aveva luogo accanto al vasto abbozzo compiuto di un Medardo Rosso", a Palazzo Fortuny, a Venezia; oppure alla mostra "Il bello e le bestie, al Mart di Rovereto, dove si incontravano frame da Cremaster di Matthew Barney accanto a statue greche dell’ermafrodito"; (se posso, aggiungo un esempio io: ricordo quest'estate a Londra, il confronto, per me vinto dal pittore inglese, tra due tele di Rothko e una di William Turner) - Paolo Donini scrive:

"Questo per dire, caro Stefano, che quando ho letto e poi sentito la preoccupazione rispetto all’emancipazione della poesia italiana contemporanea da “Leopardi”, assunto a paradigma di un trascorso letterario alto e ingombrante, ovvero immagino della nostra memoria letteraria, mi sono chiesto di nuovo cosa sia la contemporaneità, in arte, in letteratura.

Siamo sicuri che “Leopardi”, per dire il nostro retaggio poetico, non sia “contemporaneo” e semmai “fuori moda” come o certo più di tante voci “attuali” e semplicemente “in voga”? La differenza tra contemporaneità e attualità esiste.

Contemporaneo è ciò che dialoga in modo vivo e unificante con le esigenze vive e frantumate degli esseri oggi in vita; attuale è ciò che è posto in atto e sorretto, In ultima istanza, dai poteri del momento, ovvero dai soggetti perlopiù economici che hanno in quel preciso momento la forza necessaria per agire e imporsi. Ebbene la poesia ha che fare con la contemporaneità delle istanze umane e, quando è tale, difficilmente è complice dell’attualità dei poteri.

L’attualità attuale dei poteri festeggia e impone il superamento del passato in tutte le sue forme. Anche la forma fisica del “passato”, l’invecchiamento, di esseri e di oggetti, è depennata, culturalmente e iconograficamente – esiste solo in sé - così come la morte, di cui non si deve parlare se non per informare di fatti truculenti. In ambito produttivo, la sapienza artigianale è stata distrutta rendendo impossibile l’apprendistato dei giovani e ogni fare antico è perso. La peculiarità dei cibi e dei prodotti alimentari è assediata dalla standardizzazione globale e quello che mangiamo sembra non avere storia – ce l’ha ma non è tematizzata, e forse è meglio.

Modelli abitativi, sapienze, tradizioni, radici, tutto deve essere dimenticato, digitalizzato. Non si accettano oggetti, concreti o ideali, che contengano echi dal tempo, tutto deve essere liscio, perfetto, azzerato, istantaneo, fulmineo.

Poniamo che anche la poesia si dedichi a questa sorta di punto zero da cui partire senza padri e senza ombre alle spalle. Alzarsi e aprire bocca senza nulla alle spalle non è forse una mitologia? Dato che qualcosa alle spalle c’è, e controlla, il problema non è forse liberarsi dai padri ma fare attenzione a quale padre si sceglie, o meglio: a quale padre ci ha scelto. O quale fratello.

Quel punto zero non coincide con la rottura che appartiene al nuovo bensì con l’adesione al diktat del momento che recita: nasci adesso (qua c’è il tuo telefonino, lo pagherai a rate, e questa è la tua quota di debito pubblico), alzati e cammina, o meglio alzati, impara a vendere qualcosa e col ricavato, compra più che puoi.

Diktat che tradotto in letteratura recita: siediti e scrivi velocemente qualcosa che si capisca, che sia immediatamente commestibile, senza strani sapori e senza grassi.

La rivoluzione del nuovo non si compie sempre nello stesso modo. Bisogna fare attenzione oggi ad essere moderni perché questo non significa ciò che significava ad esempio per Rimbaud. La rottura ha senso innovativo quando c’è qualcosa di opprimente da rompere. E oggi di opprimente ben più del passato c’è la pantomina di una cultura che finge di essere appena nata, azzera le ascendenze millenarie e si nutre di primizie tecnologiche complesse e banali, di alfabeti trogloditici perché funzionali e inespressivi, con esiti violenti e una finalità sola: la sopraffazione.

Non sono certo che in una società che ha dichiarato e vinto la guerra contro il linguaggio, dove la gran parte dei giovani non studierà più storia, letteratura, filosofia, arte ma si preparerà fin da subito a competenze tecniche, bastandole un vocabolario di 400 lemmi di cui un quarto di neologismi anglofoni; dove la parola scritta è stata mutilata dalla semplificazione e dall’errore, l’oralità è colonizzata dalla favella menzognera e aggressiva di quella che continuiamo a chiamare chissà perché “politica”, essendo pubblica spartizione di bottini; dove la memoria è stata bandita dalle menti e con essa la lucidità del presente, dove la logica delle asserzioni è soppiantata dal colpo a effetto delle aggressioni, non sono certo che il problema della poesia italiana oggi sia liberarsi da Leopardi. Non sento questo fardello.

Forse oggi è più determinante rompere il diktat dell’attualità, vagliare attentamente coso a siano oggi il futuro e il cambiamento e se non siano ipotizzabili in una direzione differente dall’oblio e dal tecnologico, riprendersi i legami con il tempo dell’arte, ricucire una contemporaneità che ha sempre prodotto scarti nell’attuale aprendo gli unici varchi liberi. Annodando le regioni lontane, accostando le vicinanze incongrue. Prendendosi il buono là dove è e dove è stato per farne di nuovo la ragione e il canto.

Forse occorre accettare onestamente che la poesia è margine e in un certo senso, è insuccesso. Non importa se è inascoltata o ininfluente, essendo ascolto in sé e infinibile influsso, essendo destino. E non importa quindi aggiornarla quanto fondarla nell’organismo di un proprio poema.

Forse in questa epoca dell’innovazione, l’innovazione non può essere altro che inattualità.

Gli azzeramenti culturali praticati sulla lingua e sulla cultura europee sulla scorta del preponderanza anglosassone e della trasformazione tecnologica del mondo come recettore del mercato, sono stati conclusi con successo in nome delle magnifiche sorti e progressive intitolate a un genere di uomini e donne moderni, felici, famosi, immemori, ricchi, atletici, vuoti e sorridenti che appartengono al nuovo immaginario fornito di ogni supporto tecnologico sempre più articolato e raffinato per rimirarsi così come si aspetta di vedersi. E dotato di una lingua glabra e incolore, ridotta e generalizzata o al più aggressiva e urlata entro le maglie allucinate della sconnessione logica, dell’idiozia mediatica. Una generazione si profila all’orizzonte, di “logo privi”, come scrive Magrelli. Uomini e donne così non accettano e non riconoscono echi dal passato, necessitano di oggetti culturali ogni volta nuovi di pacca, lisci e insapori, ipo-calorici, seriali, confezionati, igienizzati. Meglio se inclini al narcisismo e alla mitologia del corpo. Né è vero che il potere è disattento e la società si disinteressa della poesia, semmai la guarda in tralice.

Non a caso la poesia femminile è oggi una piccola oasi di marginalità attenuata, gode di una lieve considerazione nell’indifferenza generale, se ne parla: forse perché incline al corpo e determinata per (troppo) ovvie ragioni a distinguersi dal passato, agevolata in questo dai molti che non sembrano concordi sull’irrilevanza del sesso – e di tutto – sull’essenza del genio.

Ciò che interessa non è il sapere del corpo o il femminile in quanto intrinseco alla poesia scritta da donne: il corpo per chi voglia essere intellettualmente onesto è inenarrabile, le sue sillabe sono ansimi, febbri, rossori, flatulenze e il suo puro mostrarsi è sconvolgente, è il dolore. E il femminile? Ciò che interessa è che la poesia non sfugga al diktat materialistico della dimensione fisica, dell’edonismo e della categorizzazione sessuale come griglia conoscitiva assoluta, allo slogan dell’atletica come sostituto dell’etica e in ultima istanza dell’azione in luogo del pensiero, all’esigenza che il potere ha di dividere per imperare. Le donne, che oggi scendono spesso in campo come le più formidabili e ignare ancelle esecutrici del potere, gli hanno dunque regalato non la poesia femminile – dagli esiti notevolissimi - ma il mito settario-sessuale che l’ammanta, la specifica sensibilità a demarcazione sessuale. E assurgono agli attuali allori, per quanto striminziti, non in quanto poeti (o poete) ma ancora in quanto “donne”, “femmine”, un po’ come Leopardi assurto agli allori disidratati nelle antologie scolastiche non in quanto poeta ma in quanto “gobbo”. Nulla si dice ancora qui di cosa è un poeta. Nulla si dice della sua inamissibilità e del suo esilio dal mondo delle categorie.

Un poeta che ha vissuto in un piccolo borgo di bifolchi, in una penisola traboccante di bifolchi, al margine della società letteraria del tempo - conforme e insipida come ogni “società letteraria” questa, zeppi di bifolchi il borgo e la penisola esattamente come oggi i nostri borghi e la nostra penisola - elaborando una filosofia e una poesia di straordinaria lucidità e bellezza lirica, mi appare oggi un perfetto contemporaneo. Non mi opprime il suo canto.

Un artista tempo fa mi ha detto l’arte è come il maiale, non si butta via niente.

Forse intendeva che l’arte passa sempre nello stesso punto ma a tagli di latitudine diversa, si dilata nel suo ceppo come gli anelli temporali dell’albero, si ruba le sillabe e gli accenti, si copia e si trasforma, si scambia di tutto, si specchia e si tradisce, fila la stessa trappola alla luce sui rettilinei trascorrenti della sua ragna iridata.

Così Dmitrij Aleksandrovič Prigov, poeta e artista tra i maggiori del ‘900, nato a Mosca nel 1940, morto nel 2007, vissuto nell’Urss di Stalin poi nella nascita progressiva della nuova Russia, buttato dal KGB in una clinica psichiatrica ancora nel 1987 per aver toccato qualche pubblico nervo scoperto, ci è assolutamente contemporaneo quando scrive che l’arte dovrebbe essere soprattutto tesa a creare “una massa critica capace di opporsi alla titanica potenza di ciò che è in voga”.

 
Un caro saluto

Paolo




Superare Leopardi?

Riprendendo un pensiero di Tiziano Salari espresso ne Il grido del Vetraio (‹‹Non si tratta più di trovare l’espressione giusta per il grido del vetraio, ma di far risuonare (sentire) nelle parole il disincanto del mondo? O forse questo è il passato (l’incubo) da cui ci dobbiamo risvegliare?››), mi chiedevo: "Che cosa significa, tuttavia, risvegliarsi dal ‹‹disincanto del mondo›› (e dall’idea che il dolore sia la condizione sine qua non per accedere allo scrigno sepolto del vero), sganciandosi di conseguenza da una tradizione che ha infettato particolarmente la cultura europea degli ultimi due secoli? Te lo chiedo perché, se è vero che l’angoscia della perdita del centro va superata dal di dentro, assumendola nietzscheanamente fino in fondo, occorre anche – per la cultura italiana – un ripensamento della logica di Leopardi, padre del nichilismo moderno, un rimettersi ad essa che consenta lo scarto di lato, così che il nulla (malgrado l’apertura al consorzio civile della Ginestra) non sia buco nero che assorbe l’avvenire, come nel recanatese, bensì terra fertile, solco sul quale scommettere un destino" (pp.36-37).

Se c'è possibile fraintendimento in queste parole, esso riguarda la natura dello "scarto di lato", che non significa, nelle mie intenzioni, recisione, oblio. Per mettere in opera lo scarto da Leopardi non dobbiamo infatti tagliare i ponti con lui, come vorrebbe un certa idea del postmoderno, bensì, come dico altrove, rimetterci a quella voce come ci si rimette da una malattia, sapendo che la porteremo sempre fra le carni, almeno come esperienza. Il concetto trova ulteriore chiarezza, spero, se mettiamo in gioco due termini tedeschi usati da Heidegger per indicare il "superamento". La modernità pensa di superare qualcosa nel senso di annullarlo nel pensiero presente, abbandonandolo definitivamente in quanto consumato nell'essere diveniente. Heidegger chiama Überwindung tale idea della storia, in cui l'essere diviene secondo ritmi necessari e riconoscibili. Differentemente, il superamento in quanto Verwindung, significa porsi nei confronti del passato con un atteggiamento di approfondimento, di superamento-distorsione, in quanto invio costantemente aperto dal nostro interrogare. Di conseguenza, il mio discorso dice di slegarci dalla facile acquisizione che Leopardi sia, tout court, il poeta del nichilismo compiuto (considerando ciò un mero dato, un solido punto di riferimento), per rimetterci invece a lui in quanto poeta che tiene il nulla nei circoli ermeneutico, etico e linguistico, i quali ce lo consegnano nella integrità impensabile che esso è nelle sua indefinibile presenza. Non dunque fare di Leopardi una pedana su cui piangere la morte di Dio (o scappare da questo assunto imprescindibile, rifondando improbabili bucoliche quotidiane), bensì muovere la terra presente con quest'aria asciutta che egli ci offre e con quella che nel frattempo abbiamo assimilato (in 150 anni di cultura), dando così al tempo denso dell'ora, la mobilità del possibile, rivitalizzandolo anziché ridurlo a mero dato fattuale.

Tale assunto mi sembra davvero vicino a quanto dici nella lettera, caro Paolo, che ne dici?

9 commenti:

  1. Caro Stefano,
    la tua risposta non fa che confermare quanto forse avevo intuito, vale a dire che il tuo “superare Leopardi” includeva un’interrogazione, profilandosi da subito come un lancio dialettico che infatti mi ha sollecitato a espormi. Siamo dunque assai vicini al problema vero, vale a dire che la voce di un poeta risuona nell’ascolto critico ed è questo il guscio che la trasporta nel tempo, talora malamente o in condizioni precarie o con attenzioni sbilanciate e malriposte. Ripensare il passato è dunque il modo di superarlo portandolo con sé. Ma ho tanto scritto nella lettera che non voglio tracimare di nuovo, lascio spazio a chi vorrà intervenire e mi rifarò vivo più avanti, intanto grazie della tua ospitalità e dell’intelligenza prospettica con cui poni il problema – ora vado in palestra e grazie a te rifletto, rifletto …
    Paolo

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  2. Chiedo scusa, ma come si può pensare (come mi fare abbia fatto Paolo Donini nella sua lettera) che si parlasse dell'emanciparsi da Leopardi facendo tabula rasa della sua poesia??? Ma è chiaro che i Grandi del passato (nella letteratura come nell'arte o nella musica) saranno grandi per sempre, e se sono rimasti grandi nel tempo è perché hanno detto qualcosa che travalicava il loro tempo e sicuramente anche il nostro (se non fosse stato così, come avrebbero potuto sopravvivere - e con quale meravigliosa vitalità - all'avvicendarsi dei secoli?...) Io, almeno per quanto mi riguarda (mi sono sentita chiamata in causa, dalla lettera di Donini, perchè ho espresso, con Stefano, una mia opinione in proposito), parlavo essenzialmente di linguaggio, di sensibilità che deve essere quella del MIO tempo (altrimenti, che so, un Antonio Porta non sarebbe degno di essere ricordato...). E per me, essere del proprio tempo, significa piangere lacrime di sangue proprio nel confrontarsi con questa attualità che non ci appartiene, con una mercificazione che non può che dare la nausea a un poeta o a un artista per fargli gridare il suo no, magari camuffandolo da sì per cercare di "minare" l'attualità becera e ipervitaminizzata dal di dentro... Insomma, sto solo parlando di quello che fanno gli artisti e i poeti di oggi, che vivono oggi, sono nati in questa epoca, ci devono fare i conti. Per dire (mi vengono esempi nell'arte figurativa perché è parte della mia formazione): se io domani mattina prendessi un pennello e dipingessi il Déjeuner sur l'herbe, avrei fatto qualcosa che non avrebbe alcuna rilevanza artistica (a parte che sarebbe impossibile che riuscissi a farlo perché la mia sensibilità e il mio talento non potrebbero essere quelli di Manet semplicemente perché il mio dna artistico è per forza diverso dal suo, è irrimediabilente mutato): ma ciò naturalmente non toglie che la grandezza di Manet o dei trecentisti o di Leonardo brilli per sempre di una luce che non si affievolirà mai... Ci sono modi diversi di toccare picchi di arte o di poesia, e quelli del passato, pur proiettati nel futuro, erano tuttavia - felicissimamente - intrisi del linguaggio della propria epoca, anzi ne erano una sorta di quintessenza, di distillato prodigioso...
    Infine, tengo a precisare che, personalmente, come poeta donna me ne fotto dei diktat della modernità, della corporalità, di come viene solitamente analizzata la poesia femminile (che già solo la classificazione mi fa venire l'orticaria) e cerco di parlare un linguaggio poetico da essere umano e basta. Scusate lo sfogo, ma scrivere questo commento mi ha fatto alterare un po', e l'ho scritto soltanto perché anch'io ero intervenuta prima, con Stefano, sul fatto di Leopardi ecc... luisa pianzola (ps: mi scuso, prima per errore ho postato questo commento nel link sulla poesia-web,da dove andrebbe tolto, grazie)

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  3. Sono molto grata a paolo Donini, e a Stefano, qui, per avere gettato il sasso dentro lo stagno:Non c'è un rigo una parola che non condivida della lettera di Donini, mi spiace davvero non avere presenziato.. rilanciare le polarità; contemporaneo/attuale (leggi anche Mandelst'am e Cvetaeva, Bachmann) può solo fare inorgoglire davnti alla scarsità e miseria del finto colloquiale, simil- comunicativo parodiato delle poetiche più conformi,così come le trappole del senza tempo e senza il moderno fecero e continuano a fare, effetti devastanti. Mi trovo poi in campo mio sul difficle tema, e ci torneremo, spero, con più spazio, della poesia femminile che è portatrice di un pensiero forte, anche in poesia, e che avrebbe dovuto essere l'altra metà del novecento, ma che non è stata letta se non per emersione da sé, nella evidenza, ma fuori canone , spesso..E della limitante raffigurazione odierna, spesso, senza un simbolico di sostegno, dedita ad una demarcazione da sineddoche pura, da feticismo, per non dire che la sessualità non può non essere immagine e pensiero autonomo, nelle donne, ALTRO, mai arcaico oggetto dello sguardo altrui, univoco..Ri-leggersi la giovanissima, e contemporanea! Simone de Beauvoir.
    Maria Pia Quintavalla

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  4. rispondo appena posso (domani) con calma. vedo che la materia è incadescente. Che Luisa è una battagliera. E che Maria Pia ha una posizione differente da Luisa. inevitabilmente.

    dico: non difendiamo la posizione. allarghiamola, come si fa nelle arti marziali.

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  5. Per Luisa Pianzola:
    il problema viene posto nei termini estremi dell’azzeramento non da me e ovviamente non da Stefano ma dall’epoca, credo sia difficile contestare che esiste una frattura radicale, generazionale nell’organismo del linguaggio e nella trasmissione della memoria e che un sentiero antico sia oggi in più punti interrotto; è questa frattura l’interlocutore, ogni volta che si prende parola. La modernità della scrittura si gioca ora nel rivolgersi a questa interlocuzione muta, becera; a qualcosa che è già stato tolto.

    Stefano poi ha ben chiarito come la questione sia il nichilismo leopardiano. Tuttavia non va dimenticato che la grande rimozione che annebbia il presente riguarda il dolore, riguarda la morte di ogni cosa, che Leopardi, se letto diciamo “a rovescio” staglia e bilancia sullo sfondo della bellezza di un errore sublime, di un attimo di illusione e giovinezza totali. Oggi non è stato silenziato solo il dolore ma anche questo contrappeso di luce indimenticabile, ed è qui che Leopardi parla una lingua che sento nostra, flagrante, in questo ammanco luminoso osservato da un dispiacere lucido e immenso.

    Per Maria Pia Quintavalla, mi fa piacere la condivisione del nesso passato-presente, questo è il punto che mi preme, cosa è stato spezzato? Qual è l’entità della sottrazione? Quale la peculiarità del danno? Quale il medicamento? Non ho la fortuna di infischiarmene dei poteri dato che loro non si infischiano di me, quanto alla poesia femminile ci vuol ben altro che le mie tre righe per accostarla.

    Paolo

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  6. Ma sì, infondo diciamo tutti la stessa cosa, sulla necessità di trattenere ma rielaborare il passato, per poter compiere il nostro, di passo (e per farlo più deciso, questo passo, è importantissimo aver metabolizzato il passato il meglio possibile). Solo, la mia reazione (un poco scomposta, lo ammetto, adesso, passata la tempesta) è nata dal fatto che mi era parso che la - peraltro molto ben scritta e suggestiva - lettera di Paolo Donini partisse da un presupposto (l'idea che qualcuno possa aver sostenuto che questo passato in fondo sia anche un peso del quale liberarsi) un poco forzato, quasi cogliendolo come spunto per parlare di tutto ciò che non gli piace (e quanto a ragione!) del presente (...) Tornando ancora un attimo su Leopardi, leggere, con cura, il Diario del primo amore o i Pensieri o lo Zibaldone è stata per me un'esperienza umana e intellettuale ineguagliabile (ci abbiamo passato due anni di corso monografico, a Lettere, insieme alla lettura psicoanalitica di Elio Gioanola, all'Università di Genova), che mi ha profondamente segnato, e nella quale, ricordo, mi è parso di sentire lo scrittore Giacomo fratello d'anima e di lucidità esitenziale come raramente mi è capitato di ritrovare in altri poeti, anche più vicini a me temporalmente.
    Ma, forse, il Giacomo che non mi ha dato nulla, è quello tratteggiato da una critica vagamente sorda è un po'stereotipata (e qui mi trovo d'accordo con alcuni passaggi della risposta di Stefano) che tutto sommato non ne coglie la sostanza più autentica, restituendolo come una sorta di santino un poco insapore (e qui la colpa è stata forse del liceo, cosa successa anche per altri autori). Insomma, e qui mi congedo perché l'ora è tardissima, lunghissima vita a Giacomo e al suo lungo passo diacronico nel pensiero e nella carne degli uomini di tutti i tempi. Ma al bando le visioni paludate e stagnanti (quelle che allontanano le donne e gli uomini dalla poesia - e i poveri bifolchi di ogni tempo, perché non provare ad avvicinarci anche a loro?...) luisa p.

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  7. due questioni, almeno: il postmoderno e didattica via web.

    @Paolo: lo stacco dalla tradizione, quale fonte autorevole e lineare, pare sia inaugurato dal Postomderno. Credoche questa sia una preoccupazione che può essere tolta. Sia perché, questo postomderno è solo una lettura della novità contemporanea. In "Scritti nomadi" approfondisco questo tema proprio distinguendo il postomderno, così come passa in certi ambienti europei e americani, da una linea, appunto quella hiedeggeriana-derridiana-deleuziana, nella quale si può parlare di "superamento" della modernità, concependo la parola "superamento" nrell'accezione di cui parlo il questo post.
    secondo motivo: è la modernità stessa ad avere l'idea di stacco dal vecchio. pensa al dibattito tra antichi e moderni, nato già alla fine del '600, oppure vedi l'idea barocca di "nuovo" che vuole tagliare i punti con il vecchio, montandogli sulle spalle (è la storia del nano sulle spalle del gigante, che vede più in là). il futurismo è figlio di questo equivoco, con in più la presunzione di rifondare la relazione fra arte e società, quella delle "magnifiche sorti e progressive", di cui anche tu parli (Leopardi docet, naturalmente).

    Insomma, da sempre l'età moederna fa i conti con il "nuovo" che rifonda. pensa, per esempio, alle rivoluzioni industriali (prima, seconda, terza), palingenetiche perché riordinano il presente tramite il nuovo combustibile (vapore, petrolio, atomo). Pia illusione, naturalmente.

    @ Luisa: Blanc vuole essere anche una via per divulgare l'esperienza della poesia, senza misticismi. se poi anche i bifochi praticano con presunzione la poesia, questo è un loro diritto. speriamo, come dici tu, che escano dagli stereotipi. Ma dubito. non tanto perché siano ottusi, bensì perché sono convinto di una cosa: prima viene il poeta, poi la poesia. sarò calvinista, ma credo che, senza vocazione, non c'è esercizio che tenga, nulla che possa trasformare il legno in violino (tanto per parafrasare un altro divino fanciullo)

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  8. Il rapporto poesia e società appunto.La poesia è reale, sono reali le sue conseguenze. Per questo non ho discusso il punto di vista di Stefano quanto il rapporto tra questo e la realtà. La poesia è reale, ma il reale simbolico e materiale non ne è permeato. Sono altri i poteri e i linguaggi che li pervadono. Di fronte a questi la poesia negozia la realtà quindi il tema “poesia e presente” si declina nel tema “poesia e realtà” che equivale a “poesia e potere”. La poesia ha sempre ordito il progetto di riappropriazione più profondo e ri-fondativo quello rivolto alla parola che fa realtà, e l’aspetto sconcertante è che non ha fallito. L’ininfluenza della poesia è solitamente una fase limbica, una quarantena in cui l’innovazione di sguardo che la poesia come l’arte aprono viene congelata in quanto intollerabile per i poteri attivi del momento che non saprebbero gestirla, per essere ridistribuita nelle forme attenuate che chiamiamo divulgative e non mancano di silenziatori ma divengono poi popolari, tanta è la forza originaria e quella che ne sarebbe stata, se libera, l’adesione umana, naturale. Tuttavia la recrudescenza di questa sospensione può essere più o meno grave: oggi è violentissima. Il mercato, che sa vendere tutto, non accetta di vendere poesia, perché la ritiene ( a ragione) concorrenziale. La parola poetica rifà il reale, sbaraglia il gergo rappezzato e fanfarone del giorno, incarna un modo differente di vivere. Ma chi la intende? La poesia va colpita sul fianco che espone: la memoria. E l’istruzione. È vero che i grandi saranno tali per sempre ma la domanda è: i grandi saranno grandi per chi? Se nelle società del benessere, quindi non per problemi materiali ma per disegni funzionali, masse sempre più vaste di popolazione vengono rese incapaci di intenderne il linguaggio?
    paolo

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  9. paolo, prova a rileggere il capitolo del mio libro. alcune questioni che poni qui, lì sono affrontate.

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