lunedì 14 luglio 2008

Paginazero chiude


L'editoriale del n.11, scritto da Mauro Daltin e Paolo Fichera parla chiaro, ma forse non del tutto: si dice che la rivista cartacea chiude non soltanto per i costi di gestione, ma per dare maggior rilievo al blog della stessa rivista, più snello nelle procedure d'aggiornamento, più in presa diretta con il reale. Spero sia così: un solo post da aprile non annuncia nulla di buono, e ciò è un peccato perché Paginazero era una rivista di grande rilievo culturale e unica nel suo genere.

Nata 4 anni fa a Trieste, si è occupata delle letterature e culture di frontiera, con particolare attenzione alle letterature dell’est-europa e di temi quali l’esilio, i luoghi-non luoghi, la migrazione delle e nelle culture, il carcere, i confini fisici e linguistici, la guerra, l’informazione libera. Segnalo il progetto le betulle nane, che si propone di presentare, in e-book, poeti contemporanei (e non), delle aree dell’Est Europa, con particolare riferimento alla zona dei Balcani, ma anche poeti italiani contemporanei (fra questi, ricordo che sono già usciti Francesco Marotta, Sebastiano Aglieco, Ilaria Seclì).



Dall'ultimo numero, riporto uno stralcio dell'intervista a Paolo Rumiz, uno degli ultimi, veri, viaggiatori.



Alla domanda di Angelo Fioramo sul "valore del confine" per gli uomini delle terre triestine, egli risponde: "Vengo da una città di bastardi, intendo gente dalle radici corte, dal pedigree illeggibile e indecente, con le ossa degli antenati sparse ai quattro venti. Radici com­plesse insomma. A questa complessità delle origini, a questo essere "sempre in mezzo", in bilico fra Mitteleuropa e Mittelmeer, puoi reagire in tre modi. Il primo è assumere identità monolitiche, dunque furiose e fatalmente aggressive, in quanto schizoidi; il secolo ventesimo ne ha conosciuto i disastrosi effetti. Il secondo è impazzire, vedere alieni ovunque, vivere complessi d'accerchiamento, in perenne turbolenza per il conflitto fra le proprie diverse origini. Non a caso Vienna e Trieste sono grandi città di psichiatria e psicoanalisi. Il terzo è prendere la vita alla leggera, rileggerla come un'operetta, mettere un po' di follia nella quoti­dianità. Non a caso a Trieste "la persona" si dice "el mato", cioè il matto. Un matto errabondo - e magari narrabondo - che, in assenza di antenati da vantare "in loco", non può scavare troppo in profondità. Può solo percorrere in superficie il suo pae­saggio dell'anima. È questa la reazione migliore. La più popolare, legata all'antica anima sefardita - burlona e autoironica - dei quartieri bassi dell'angiporto. Dopo un secolo devastante fondato sul mito del sangue e della terra, credo che il miglior messaggio della mia terra zingara sia proprio questo: l'attaccamento al paesaggio. Il triestino, diversamente dal resto degli italiani, percorre il suo territorio in conti­nuazione, lo segna come i cani che fanno la pipì a ogni angolo. Egli rivaluta la terra e la rilegge in modo diverso, la ruba ai teorici della razza, li obbliga a trastullarsi solo col loro fottutissimo sangue e il loro fottuto Dna.
Trieste, quella profonda, popolare e multinazionale, è capace di rileggere la parola Heimat in senso aperto, rispettoso delle identità bastarde. Succede perché l'anima della città è in grado di rifondare l'Etnos - parola maledetta - sul rispetto del terri­torio anziché sul culto degli antenati, sull'appartenenza anziché sull'identità, sul "Genius loci" e non su millenarie genealogie.
È questo il senso della mia piccola Vienna sul mare. Il triestino, come il nomade, non vuole vantare diritti esclusivi sulla terra, perché è conscio che essa appartiene solo a chi muore".

7 commenti:

  1. Per quanto riguarda le riviste in blog, spero che questo slittamento non sia una forma aggiornata di eutanasia editoriale.
    Invece, la questione della appartenenza alla terra è anche un problema di preposizioni. Perché non apparteneza della terra alla nostra geografia emotiva? Perché appartenenza sulla terra, come cortile che si lascia per viaggiare la storia e poi tornare e rilegarsi alla propria vita ormai sepolta, per ritrovare i sapori di radici da masticare e crescere ancora un pò verso il futuro?
    La terra per i marinai, pesci senza branchie a pelo dell'acqua, è un letto e una porta che si chiude amorevolmente dietro le loro spalle con un abbraccio che significa pace e sollievo.

    mdp

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  2. non so se ho capito bene l'invito, ma la terra dei marinai è molto chiara. Anche la terra dei poeti è così: una pagina bianca sopra cimiteri di gioia.

    gugl

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  3. Volevo solo scamiare di posto i termini della questione: non l'uomo che è soggiogato alla terra d'origine, con un determinismo che non ho mai apprezzato; bensì la terra che fa resta sfondo dell'educazione all'umano quando si è ancora feto di uomo, la terra come utero dentro al quale troviamo e disegnamo i nostri lineamenti ideologici e culturali primi. Per poter poi navigare il mare dell'esperienza senza timore di non aver porti a cui attraccare.

    mdp

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  4. Nella foga qualche errorino ci scappa sempre: "scambiare" e "fa resta" senza il "fa".
    Scusate!

    mdp

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  5. infatti, non si parla di determinismo, ma semmai di Heimat, che è matria più che patria, casa più che catena.

    gugl

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  6. Quando succede questo,
    emerge il lato irritantissimo
    (e c'è)
    dell'esistenza dei blog.

    Ciao Glù
    renée

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  7. Mah, io la vedrei casomai come segno dell'irresistibile vitalità dei blog.

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