venerdì 5 gennaio 2007

lingua, poesia, esperienza


Sul nuovo numero de L'Ulisse (linkato nel titolo), è possibile leggere un mio breve saggio dal titolo "Quale linguaggio per quale poesia, oggi? Quale linguaggio per quale esperienza, oggi?": si dice dell'impossibilità di un linguaggio unico, si nega il vero preliminare, si suggerisce l'atteggiamento che dovrebbe avere il poeta nel presente, si mette in questione il dominio dell'esperienza di tipo intellettivo, che ci costringe a vivere in "un eterno presente sovraccarico di stimoli senza altrove, un presente dai saperi omologanti e costantemente aggiornati, privi di teleologia." E conclude: "Se è questa l’esperienza comune (e castrante) nei Paesi del tardo capitalismo, allora interrogarsi su quale linguaggio sia più salutare alla contemporaneità, significa anzitutto riconoscere che esiste un’abbondanza di codici settoriali, tali da saturare le esperienze legate al sapere calcolante, mentre va sempre più inaridendosi quella lingua degli affetti e del profondo che certa poesia, appunto, coltiva con maniacale ostinazione: dare a queste due esperienze lacunose una lingua e una sintassi – plurali e votate alla metamorfosi, al farsi e disfarsi continuo del presente – mi pare sia l’azione spettante al poeta e che costituisce, dunque (e ciò è fondamentale), la sua eticità."

2 commenti:

  1. è sempre necessario il contraltare.
    questo passo:
    "un eterno presente sovraccarico di stimoli senza altrove, un presente dai saperi omologanti e costantemente aggiornati, privi di teleologia."
    è illuminante ;) nel senso che dà voce al mio pensiero
    "mentre va sempre più inaridendosi quella lingua degli affetti e del profondo"
    e questo al mio bisogno

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