domenica 29 ottobre 2006

le scarpe di Van Gogh


Riporto un celebre passo heideggeriano tratto da Sentieri interrotti. Da qui comincia la sua indagine sull'esser cosa della cosa.

"La contadina calza le scarpe nel campo. Solo qui esse sono ciò che sono. Ed esse sono tanto più ciò che sono quanto meno la contadina, lavorando, pensa alle scarpe o le vede o le sente. Essa è in piedi e cammina in esse. Ecco come le scarpe servono realmente. È nel corso di questo uso concreto del mezzo che è effettivamente possibile incontrarne il carattere di mezzo. Fin che noi ci limitiamo a rappresentarci un paio di scarpe in generale o osserviamo in un quadro le scarpe vuotamente presenti nel loro non-impiego, non saremo mai in grado di cogliere ciò che, in verità, è l'esser-mezzo del mezzo. Nel quadro di Van Gogh non potremmo mai stabilire dove si trovino quelle scarpe. Intorno a quel paio di scarpe da con­tadino non c'è nulla di cui potrebbero far parte, c'è solo uno spazio indeterminato. Grumi di terra dei solchi o dei viottoli non vi sono appiccati, denunciandone almeno l'im­piego. Un paio di scarpe da contadino e null'altro. Ma tut­tavia...
Nell'orificio oscuro dall'interno logoro si palesa la fa­tica del cammino percorso lavorando. Nel massiccio pesantore della calzatura è concentrata la durezza del lento procedere lungo i distesi e uniformi solchi del campo, bat­tuti dal vento ostile. Il cuoio è impregnato dell'umidore e dal turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messe mature e il suo oscuro rifiuto nell'abbandono in­vernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la sicurezza del pane, la tacita gioia della sopravvivenza al bi­sogno, il tremore dell'annuncio della nascita, l'angoscia della prossimità della morte. Questo mezzo appartiene alla terra, e il mondo della contadina lo custodisce. Da questo ap­partenere custodito, il mezzo si immedesima nel suo ripo­sare in se stesso." (trad. Pietro Chiodi)

8 commenti:

  1. bel testo, Stefano, bella scelta, simbolicamente molto significativa.

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  2. anche la filosofia dove starci in un blog di poesia, no?

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  3. È una cosa alla quale mi capita spesso di pensare: un oggetto è davvero tale nel momento in cui qualcuno lo utilizza esattamente per ciò che è nato, o cui è destinato; poi, inevitabilmente, penso all’uomo, e a ciò che io credo di dover essere. Allora è tutto molto più complicato. Perché basta infilarsi un paio di scarpe per farle sentire ciò che sono, ma non basta usare il mio corpo per smettere di sentirmi inespresso. gio

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  4. la cosa, credo, è attraversata dal mondo, è agìta. il nostro corpo, invece, è nel luogo, ma sempre scentrato rispetto al senso definitivo, in una tensione che ha bisogno di qualcos'altro che lo giustifichi. l'espressione del corpo, in ogni caso, non può che essere parziale: essa è quel disvelare che, così facendo, vela il non veduto, ciò che non viene messo a fuoco. E' il concetto di aletheia, tanto caro ad heidegger.

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  5. si, ci sta bene filosofia fa rima con poesia. :)
    però vorrei capire: le scarpe si completano attraverso l'uso che le rende più che mezzo, d'altra parte e inoltre l'appartenza le rende esplicantesi, appartenendo ed essendo custodite la cosa acquista senso e si completa.
    Ho capito? almeno un poco? e con le persone vale?

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  6. mah, bisogna leggere heidegger per capire, non basta un frammento. Questo serve solo per stuzzicare l'appetito.

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  7. il corpo in quanto tale non può "essere" senza il filtro della ragione. e questo è ciò che lo rende inferiore ad ogni oggetto. non so esattamente cosa ne pensasse heidegger ma mi pare che l'uomo sia infinitamente inferiore alle proprie scarpe.
    gio

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  8. gio, l'uomo e il suo lavoro sono nelle scarpe. poi, è vero: ci sono uomini-zerbino.

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