venerdì 22 settembre 2006

poesia e buddhismo


Inserisco una riflessione ed un testo esemplare del vicentino Giovanni Turra Zan, amico che è stato volontario di Peace Brigades International ed ha vissuto per alcun tempo in monasteri buddhisti in Sri Lanka e in Florida.
“Chi è il nemico?”. Ce lo chiediamo di continuo. Possiamo trovare dovunque un “altro da me” cui affibbiare le cause della nostra sofferenza, le responsabilità della tragedia dei nostri condizionamenti. E ciò genera la lotta del sé contro il non sé, il conflitto tra il vero ed il giusto, che io rappresento, ed il falso, l’ingiusto, rappresentato dall’altro. Come uscirne? Generalmente Anima, Io, Sé, o Atman, suggeriscono l’idea che esiste nell’uomo un’entità permanente, eterna e assoluta, una sostanza immutabile dietro il mondo fenomenico in perpetuo cambiamento. Il Buddhismo si trova a negare l’esistenza di una tale Anima, Io, Sé, Atman. L’idea del Sé è un’illusione, una falsa credenza immaginaria, che genera attaccamento, i pensieri di “me” e “mio”, di odio, di “altro da me”. La pratica meditativa, lo Shikantaza (il “solo sedersi”) nello Zen, Anapanasati e Vipassana nella tradizione Theravada, è la disciplina, la Via indicata, per la realizzazione di Anatta, il non-sé, naturale fluire nel grande fiume, corollario alla genesi condizionata, in cui niente nel mondo è assoluto, statico, permanente. Ogni cosa è condizionata, relativa, interdipendente. Quando questo c’è, quello c’è. Apparendo questo, appare quello. Quando questo non c’è, quello non c’è. Cessato questo, quello cessa.
Ecco che “essere Uno con ciò che è”, è il profumo della pratica buddhista. Essere Io, ed essere non-Io: essere con tutto ciò che è, qui ed ora. La vita come impermanente commemorazione di un sé vacuo: un monumento senza giunture. In cui il vuoto carico d’angoscia dell’occidente, si trasforma nel vuoto fertile della pratica buddhista.
Cosa c’entra tutto ciò con l’azione sociale? E con la poesia? Certo, non si tratta di non avere alcuna idea, o una posizione a proposito di ciò che accade nel mondo. Forse neanche di non schierarsi con chi soffre. Non di abdicare alle proprie responsabilità civili. C’entra con una scelta fondamentale, che è la risposta ad una domanda concreta: “Voglio essere parte del problema, o parte della sua soluzione?”. E sedere in meditazione, chiamandoci con “tutti i nostri veri nomi”, consapevoli che il nemico, spesso, siamo noi, ci aiuta ad aprire i pugni, e forse a prenderci responsabilità ancora più profonde. “Chi muore?”. Il monaco zen Claude AnShin Thomas, ad Aviano, abbracciò un pilota appena sceso da un aereo che aveva bombardato Belgrado. “Perché lo hai fatto? Non pensi che lui sia responsabile della morte di molte persone?”. “Certo. Lo è. Ma io non sono a Belgrado. Ora sono qui. E abbraccio lui, perché solo così posso contattare la sua umanità, prima che anch’essa muoia, giorno dopo giorno, bombardamento dopo bombardamento. Solo se lo abbraccio e gli parlo, c’è una possibilità che lui accolga le sue responsabilità. Solo così sono parte della soluzione e non parte del problema”. E cosa c’entra questo con la poesia? Solo sedersi, aprire i pugni, essere con ciò che è, interamente, e “chiamarsi con i propri veri nomi”. Serve altro?


Io sono il kosovaro
che corre ad arruolarsi nell'UCK,
e sono il serbo che presidia
i ponti di Belgrado;
sono l'adolescente violentata e
sgozzata dai miliziani e sono
il carnefice che l'ha martirizzata;
io sono il bambino che ha perduto i genitori
e sono i genitori che non si danno pace
per averlo perduto;
io sono il pacifista che in silenzio manifesta
di fronte alla caserma “alleata” e sono
il marine di guardia che lo osserva e lo deride;
io sono la moglie di questo stesso marine
che esce con i bimbi, vede i pacifisti,
e teme d’essere aggredita e
sono il pacifista che non si dà pace
che si possa vivere
con la propria famiglia in una caserma;
io sono il manifestante contro le bombe
ed il poliziotto che lo carica;
io sono il pilota che scarica missili e la madre
che trascina terrorizzata i figli nel rifugio
antiaereo; io sono il vecchio che ha perduto tutto
ciò per cui ha vissuto e
sono il volontario che gli porge il pane;
io sono il marine pronto a combattere e sono
la guardia di frontiera che lo scruta da lontano,
in attesa
di ucciderlo.
Viene alla mente una vecchia canzone:
"Tu carichi il fucile di chi ti spara e poi piangi
che la vita e' troppo amara".

36 commenti:

  1. Ci ricorda Giovanni che questa poesia l'ha scritta ai tempi dell'attacco NATO alla Serbia e al Kosovo, quando andava a sedersi in meditazione di fronte alla caserma americana di Vicenza.

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  2. Grazie, Stefano.
    Anche la foto. Certamente più intensa di quella che ti avevo inviato io, dove sembravo appena uscito dal dipartimento di salute mentale. :)))
    Giovanni

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  3. non volevo dirtelo...:)

    adesso aspettiamo i commenti.

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  4. si dice "reparto".

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  5. anonimo, grazie per la geniale precisazione :-)

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  6. No, no, caro anonimo. Si dice proprio "dipartimento" (abbreviato in DSM, o CSM, dove "c" sta per "centro"). Trattasi del servizio psichiatrico territoriale (quello sorto dopo la legge Basaglia). Il reparto sta all'ospedale, e quello ancora non l'hanno chiuso. Sono del mestiere, purtroppo. Se servono altre delucidazioni sui servizi socio-sanitari della psichiatria, sono a disposizione. : )))
    Giovanni

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  7. giò, sono sicuro che entro domani mattina qualcuno si degnerà di commentare le tue acute considerazioni sull'essere uno con ciò che è (nella dsseminazione delle esistenze). Ma sono che, da buon praticante, la pazienza non ti manca.

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  8. Voglio commentare con qualche mio verso che intende appunto significare che sè e altro da sè, giusto e ingiusto, buono e malvagio, un giorno a venire non esisteranno separati e opposti.

    "Quel giorno sarà
    quando l’odio sbiadirà
    colando sullo sfondo
    e trionferà imperante
    lo spirito immortale.
    Allora cesserà la farsa
    e il gioco delle parti
    dei buoni e dei cattivi
    dei falchi e le colombe
    allora sentirò lo squillo
    risonante
    le trombe del giudizio
    universale."

    Ma se comprendessimo oggi qui e adesso questo stesso pensiero, quel giorno sarebbe oggi qui adesso.

    Sentirsi parte di un tutt'uno e non da un lato degli opposti, eppure è così difficile capirlo e pensarlo proprio per quelli che nella poesia subiscono la violenza, la derisione, la costrizione.

    Ogni particella umana vive nel mondo per parteggiare dalle liti del condominio fino alla guerra nucleare e così generare una serie infinita di liti banali fino a guerre, morti, violenza e dolore.

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  9. hai ragione Ali. a me piacerebbe anche che riflettessi sulla questione di stare dalla parte della soluzione anziché da quella del problema (la dove è possibile).

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  10. dentro di noi problema e soluzione, a volte siamo problema, altre soluzione. certo è meglio stare dalla parte della soluzione, ma per essere soluzione ci occorre chi ci scriva il problema. il bene e il male. il male è necessario al bene. si faccia in modo che non ci sia più il problema e non occorreranno più risolutori. allora sarà il paradiso. sarà la vittoria finale. mi piace la filosofia buddista della realizzazione del non sé, del distacco, del lasciare andare. del morire a se stessi. perchè morire a se stessi è anche un insegnamento cristiano. morire a se stessi per rinascere. mi piace il buddismo per l’idea dell’impermanenza. niente di tutto ciò che è, niente di tutto ciò che è sarà. non mi piace perché non tengono conto dell’anima, di quello che c’è stato scritto dentro, morale, etica, amore, solidarietà, fratellanza, amicizia. altrimenti perché la vita. altrimenti non ha senso. non c’è la soluzione, resta il problema. ehi, è per farmi sentire ogni tanto :-) a.

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  11. Antouno, giacchè, quando ti fai sentire, ti si sente, fatti sentire più spesso.

    Antodue, giacchè sei l'unica femminuccia che commenta nel mio blog fatti sentire anche lì.

    Golf, a leggere le mie poesie, a relazionare con me, non si direbbe, eppure io sono sempre dalla parte della soluzione, dalla parte della speranza, e, nello stesso tempo, dalla parte della sfiducia e dell'ansia.

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  12. anto, i tuoi interventi sono sempre illuminanti.
    poi io chiedo: che l'anima esista è un problema o una soluzione? Che l'anima non esista è un problema o una soluzione?

    Ali, una donna come te, non può mai essere dalla parte del tor(t)o :-)

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  13. Credo che anche in occidente ormai si sia introdotto il tarlo dell' "e....e..." nel pensiero epistemologico. Giusto Stefano?
    In una mano sta il problema, nell'altra la soluzione. In Matrix ci chiederebbero di scegliere. Pillola rossa o pillola blu? Forse che non si possa vivere senza pillole? Sarebbe l'ironica risposta del saggio occidentale. Ed il maestro Zen Rinzai ci risponderebbe con un'altra domanda: "Qual'è il suono di una mano sola?".

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  14. ach! ero io.....Giovanni (sorry).

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  15. caro ste non mi fare domande difficili, domande da professore, perchè non so risponderti, sarei tentata di dirti che l’anima che esiste non è problema e neppure soluzione, che l’anima è l’uno e l’altro, non è un tema che necessita di svolgimento, ma è svolgimento e tema. mi piacerebbe capire il caos sacro, dove tutto era bianco e nero, maschile e femminile, dove ogni cosa era l’uno e l’altro, dove le cose non avevano nome. ma è inconcepibile per me, come è inconcepibile l’eterno e l’eternità. ma che l’anima esista è convinzione che mi proviene proprio dal discernimento dopocaos perché se la pongo come ipotesi l’equazione eterna si risolve e ogni cosa ha senso. a.

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  16. vorrei delucidazioni sui servizi socio-sanitari della psichiatria
    :-)) a.
    no, scherzo

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  17. sai amto che dici bene? Capire il caos è paradossale, perché per capire bisogna distinguere, ordinare, ossia negare il caos.

    Cato Giovanni, la via pillolare dell'occidente è l'innaturale che si fa saggezza: possiamo impedirlo?

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  18. Non potremmo invitare qui anche il fabry centofanti, per una sua saggia pillola poetico-spirituale?
    :-)
    Ciao. Giovanni

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  19. Certo Stefano: perché impedirlo? la nostra tradizione giudaico-cristiana fa, appunto, dell'innaturale saggezza, nella migliore delle ipotesi. E quell'angoscia nel sostare nel "senza senso" ha il suo fascino, dopotutto. Siamo terribilmente giudaico-cristiani, non v'è scampo: il vuoto, il caos, sono temi angoscianti, inconcepibili: occorre dare loro un ordine, o un nome, perché non divengano previsioni catastrofiche. Questo affascina anche me, che in ogni caso mi ritengo figlio della mia terra. Irrimediabilmente. Non c'è buddhismo che tenga; non c'è ramo cui aggrapparsi: sarà mai, questo, motivo di consolazione, anziché di paura?

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  20. ach! diavolo di una macchina....mi scordo la firma.....il "senza nome" Giovanni.

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  21. infatti, la mia, era una domanda retorica, da leggersi: dobbiamo impedirlo? ha senso impedirlo? mondo sii, e buono, dice zanzotto: è una in-vocazione alla mondità del mondo, alla sua libera docenza in fatto di esser-come-sono.

    Fabry, ora vedo se c'è.

    ciao

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  22. grazie Fabry, ottima risposta. Credo che Giovanni sarà soddisfatto.

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  23. La prima poesia secondo me ha una contraddizione di fondo e dovrebbe essere scritta: io non sono... io non sono quello... io non sono questo... poiché nulla veramente è.
    Il cristianesimo non annulla l'io anzi lo potenzia come entità unica e immortale destinata alla gloria o alla perdizione eterna. Io e anima nel cristianesimo sono la medesima cosa. Per il cristianesimo il mondo non è illusorio ma in un tempo preciso è stato creato da un Dio buono e misericordioso che lo ha fatto per puro atto di bontà. Ma l'uomo lo ha reso un luogo impuro ed imperfetto perché a un certo punto della sua esistenza ha preferito voler guardare fuori dal paradiso terrestre credendo di poter fare a meno della guida di Dio.
    Il buddhismo è una religione atea. La salvezza sta dentro di noi non in messia.
    Sono due modi opposti di porsi di fronte al divino. Per i giudaico-cristiani solo un Dio perfetto e misericordioso o il cristo sacrificato può salvarci.
    Il fine ultimo del buddhismo è l'annullamento, il fine del cristianesimo è il paradiso o l'inferno metaforicamente parlando.
    Cosa c'è di più distante?
    Scusate la brutale semplificazione ma questo mezzo costringe alla massima brevità.
    pepe

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  24. hai schematizzato con chiarezza, Gabriele. Poi, come si sa, la realtà di una cultura è sempre stratificata: perdendo le sfumature, rischi di perdere la cultura stessa: il buddhismo è anche non credere nell'impermanenza; il cristianesimo è anche credere nella responsabilità dell'uomo.

    ci vediamo lunedì su tellus folio?

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  25. Questo interessante intervento di Gabriele mi fa tornare in mente un argomento trattato an passant sul blog di Gianfranco che non mi sembra fuori luogo riprendere qui in forma di domanda a Giovanni Turra Zan
    La tua poesia è caricata fortemente dal punto di vista morale filosofico e politico, pensi che essa sia o possa essere strumento della tua azione politica, sociale, morale o viceversa che sia nata dal tuo modo di approcciare e vivere in modo diretto, personale e profondo le vicende di guerra e sofferenza nel mondo?
    Forse la domanda non è posta nel migliore dei modi, però la poesia è bella e, in certi passaggi, ferisce come un rasoio, quale migliore occasione di saggiare la verità di certa teoria?

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  26. ops, arrivo tardi, ma forse neanche troppo.
    Non me ne voglia Fabry, ma io continuo a vedere un'enorme distanza tra la cristianità (e con essa il giudaismo) e il buddismo.
    Il secondo riesce a leggere il mondo fuori da un sistema duale, mentre il cristianesimo proprio non riesce.
    La capacità di pensare, naturalmente, con semplciità, il concetto di unione tra essere e mancanza d'essere verrebbe letta con sospetto dal cristianesimo. Più che altro, l'intera riflessione di Giovanni mi fa venire in mente Nancy. Tu che ne dici, ste?

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  27. Infatti questo volevo dire l'enorme differenza che esiste tra buddhismo e cristianesimo. Basti pensare che ognuno di noi è buddha e può sperimentare, tramite la pratica della meditazione profonda a cui si arriva dopo una lunga via di apprendimento pratica e buon comportamento, l'esperienza del divino. Il cristianesimo dice l'esatto contrario: l'uomo da solo non può salvarsi perché per sua natura è portato al peccato e quindi la slavezza sta nel messia o per meglio dire nella santissima trinità.
    Il buddhismo poi responsabilizza l'uomo in ogni momento della sua breve vita. ogni azione compiuts comporta una conseguenza che si pagnerà, nel bene en el male, nelle future reincarnazioni. Non c'è confessione, dogma, santo che possa evitarlo. Solo la buddhità può mettere fine alla ruota delle infinite reincarnazioni.
    Ancora per il cristianesimo l'uomo è il centro dell'universo, il fine della creazione, solo l'uomo erediterà il regno dei cieli. Per il buddhismo ogni forma di vita condivide il nostro stesso destino.
    Ripeto cosa c'è di più distante? Attenzione non sto facendo la classifica del migliore metto solo in evidenza l'enorme distanza che separa una religione dall'altra.
    Diciamo che sono due vie diverse per la salvezza. Ognuno valida a modo suo.
    pepe

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  28. bene. noto una certa conoscenza delle differenze. Che ci sono, indubbiamente. Attenzione comunque:la tradizione Mahayana ritiene che non ci si illumini da soli. La Via va sperimentata in prima persona e nessuno può fare il lavoro per noi. Ma il lavoro più efficace si fa nella comunità: non c'è Nibbana solamente individuale. Non definirei poi il Buddhismo come "ateo", ma pittosto come agnostico. Qualsiasi praticante non ha problemi ad incontrarsi e a capirsi con un credente, al livello della pratica della compassione, e non solo (vedi l'esperienza di Jiso Forzani e di padre Mazzocchi nella comunità "vangelo e Zen" di Lodi). Anche il concetto di reincarnazione è più complesso: non c'è un IO che si reincarna, infatti. Se vi interessa poi approfondire la questione aperta tra pratica buddhista e azione politico-sociale andate a leggervi gli scritti di Roshi Bernie Glassman o di Thich Nhat Hanh. Però non vorrei si disquisisse solo di buddhismo. Non è un blog religioso, mi risulta. Ma di rapporto tra pratica meditativa e poesia. Tra scrivere poesia e meditare: che sono poi due pratiche spirituali. Non è un caso che la chiesa ufficiale abbia perseguitato i poeti fino a qualche secolo fa, no? I buddhisti, lo so per certo, non sono ancora stati perseguitati in Italia. Vivono solo delle normali difficoltà in cui si trova qualsiasi minoranza etnica e/o religiosa in un paese al 99% appartenente ad un altra tradizione religiosa.
    Ciao. G.

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  29. e per chi fosse poi interessato al tema del rapporto tra arte, poesia e meditazione, suggerisco di abbonarsi (32 dollari, che saranno circa 30 euri)ad ENSO,
    http://www.villagezendo.org/sections/moreinfo/enso.htm
    una bella rivista americana edita dal Village Zendo di New York, il cui direttore, poeta e monaco zen, Daniel KoShin Paley Ellison, è un caro amico.
    Ciao. Giovanni

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  30. bene, benissimo. vedo che si comincia a parlare seriamente. Del resto, conoscendo gli ospiti, non avevo dubbi.

    per chi scrive poesia sa che, quando crea, vive uno stato di trance che forse è molto lontano dalla lucidità buddhista. in entrambi i casi, però, c'è uno straordinario contatto con l'essere.

    ad Ali: non so se Giovanni ti ha risposto, ma la tua domanda è assai difficile. Probabilmente avviene una circolarità che diventa, insieme, azione e parola.

    a Voc: non so se Giovanni legge nancy, di certo nancy legge testi del buddhismo.

    a Gabriele: secondo me ti stai schierando spudoratamente :-)))

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  31. no, Stefano, non ha risposto, l'interesse per religione e meditazione sopr-affanno

    bel dibattito, lo leggerò con attenzione un'altra volta, evitando, per quanto possibile, di leggere tutti i rimandi

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  32. No non mi sto schierando anzi sono molto interessato alle due religioni che secondo me possono integrarsi alla grande.
    Giovanni lo so che lo cose sono molto più complesse ma l'ho detto che questo mezzo obbliga a una schematizzazione a volte brutale.
    Giovanni ti chiedo posso vivere come un cristiano buddhista?
    Meditazione, azione, purezza e amore totale... magari a riuscirci! :o))
    pepe

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  33. recentemente ho letto J. Main, "la via della non conoscenza", parla della mediazione ma è scritto da un cattolico. parla insomma della meditazione cattolica. Ne parla come se fosse la meditazione buddhista. mah!

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  34. Nel "non conoscere" c'è la massima intimità. Quando conosciamo ci allontaniamo dal conosciuto. Quando camminiamo in un posto buio e che non conosciamo dobbiamo restare molto vicino alle cose, alparle, cercando di capire con tutti i sensi dove siamo, dove andiamo. Dobbiamo essere "intimi" con quello che c'è.
    Alivento, la risposta alla tua domanda è che essere all'interno di un conflitto, come "terza parte" (io lo son stato in Sri Lanka e Guatemala) ti dà il privilegio(a parte di poter condividere le fatiche e le sofferenze di chi nel conflitto è parte in causa...) di capire come la realtà è molto più complessa di come crediamo sia. Quella poesia mi ha ricordato per anni che si può anche prendere le difese di una parte, ma l'importante è essere consapevoli che questo non porterà ad una soluzione buona per entrambi. E' dura. Richiede molta pratica. Può richiedere la cosa più difficile di tutte: non de-umanizzare colui che ritieni essere il colpevole. Stasera sulla BBC ho visto come Desmond Tutu conduce le sedute di mediazione e riconciliazione tra vittime e carnefici dell'ormai ex conflitto Nord Irlandese. Ho visto che il vero conflitto non finisce con la guerra, ma dura per decenni ancora. E ho capito perché a Tutu hanno dato un meritato Nobel per la Pace. Ciao. Giovanni

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  35. Ah! Ringrazio tutte/i voi per il dibattito e l'interesse mostrato per questo lavoro. E ringrazio il "maestro" di poesia Guglielmin per l'ospitalità e l'affetto.....Domani si cambia pagina!
    Un saluto a tutte/i,
    Giovanni

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