domenica 4 giugno 2006

pensiero debole

in risposta a quanto scritto da Gian Ruggero Manzoni nel blog di Fabrizio Centofanti , http://fabrypoesiaespirito.splinder.com/ posto un frammento dell'introduzione al mio saggio sulla caducità (inedito), rinviando l'approfondimento a quanto scritto su Nabanassar a proposito del rapporto tra letteratura e finitezza http://www.nabanassar.com/canonfinitezza.pdf

"I saggi che seguono fondano la propria legittimità sul convincimento che esilio e morte, nel senso che ora brevemente dirò, costituiscano le tensioni aurorali della caducità. E ciò differentemente per ciascun uomo, tale da collocarlo in un’apertura ontologica che trova, nella caducità stessa, le risorse del proprio sguardo singolare. Una singolarità, tuttavia, che, appartenendo già sempre ad una comunità di parlanti, è nel contempo pluralità, gettatezza in un orizzonte di comprensione condiviso.


Per esilio dunque intendo quello spaesamento che, “innanzitutto e per lo più”, chiama l’uomo, ciascun uomo singolarmente, al non sapere come e quando la propria dipartenza è cominciata. Esso qualifica lo stare qui ed ora, a partire però da un attraversamento già da sempre compiuto e inavvicinabile dalla memoria, se non per frammentarie, spesso distorcenti e comunque mai definitive acquisizioni. In termini filosofici, l’esilio assomiglia allo “spaesamento” heideggeriano, là dove, in Essere e tempo, il “non sentirsi a casa propria” non è un accidente dell’ente intramondano, bensì il modo più proprio dell’Esserci di “essere se stesso come essere-nel-mondo”. In termini antropologici, l’esilio segna invece la distanza che separa l’uomo dal “centro del mondo”, da quel luogo in qualche modo circoscritto capace di orientargli l’esistenza, di renderla attuale nella pienezza del senso; luogo che trova nel rito la sua consacrazione e che viene ordinariamente a coincidere con quella costellazione di figure che rimandano al mito delle Origini. La nascita stessa e la sua celebrazione danno l’avvio all’esilio, ad un distacco non lineare dal centro, che viene ad intrecciarsi con l’esilio della civiltà cui si appartiene, con quella distanza (culturale, politica, economica, religiosa ecc.) dal proprio inizio che essa tenta di ricucire attraverso l’anamnesi storica.
Tutto ciò non significa, almeno nella prospettiva che guida questo saggio, che sia angosciante la consapevolezza d’esser fuori-casa, o che il “centro del mondo”, come lo chiama Mircea Eliade, corrisponda all’identico, all’indiviso della metafisica, al Principio incausato, oppure sia rintracciabile storicamente nell’età dell’oro. E nemmeno, in linea di principio, che esso non sia origine, centro, oppure, deleuzianamente, proliferazione infondata della Differenza. Lo spunto da cui parto coincide piuttosto con l’evidenza secondo la quale, l’individuo e la comunità (l’individuo che è già sempre comunità), cercano una collocazione, un proprio luogo fondato, una ragion sufficiente, per quanto delirante (penso il termine nell’accezione derridiana), che riconduca l’atopia dell’erranza insensata, ad una terra abitabile, cui eventualmente situarsi da nomadi, da viandanti.


L’esilio ha radice dunque nella gettatezza della singolarità, in quel suo particolare ed inquieto modo di stare in posizione, di essere qui, già sempre aperto alla discontinuità radicale, al morire, a quell’evenienza che interrompe continuamente la via del ritorno mossa dall’esilio, la disorienta, la svia; anzi: ciascuna via del ritorno è già sempre sviata dalla morte, s-centrata, posta altrove, in una mappatura ad ogni passo divergente e sempre perciò bisognosa di una partenza nuova, in un impossibile riordino complessivo. Ed è in questo transito finito che la presenza muove i passi nel mondo, una presenza che è caduca non in quanto mancante-di-qualcosa, ma proprio per la sua irriducibile resistenza all’universale, per quel suo essere così, direbbe Agamben, disseminata nell’esistenza e perfetta nel suo modo."
Stefano Guglielmin



8 commenti:

  1. Caro Stefano, nonostante il tuo intervento ricada in un contesto squisitamente filosofico (soprattutto dal punto di vista terminologico), direi che si capisce bene la tua posizione (che mi ero permesso minimamente di anticipare in un commento al post di Manzoni)

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  2. direi orgogliosa la firma in calce, e giustamente.
    per il resto direi d'aver compreso pienamente la mia frammentaria presenza vista anche come acquisizione di coscienza di transitorietà da viandante nell'esistenza più che da esiliata dal mondo-centro.
    direi che era meglio parlarne in questi termini che in termini di opposizioni nette pro occidente/ oriente o ancor peggio maschilista/femminista; argomento quest'ultimo che trovo riduttivo, trito e ritrito e buono solo per far polemica.
    e per finire, fortunatamente, non credo che un dibattito su un blog abbia, possa o debba avere forza rivoluzionaria.
    In definitiva era meglio parlare di poesia.

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  3. Voc, ho letto (anche tra le righe) il tuo intervento, e l'ho apprezzato.

    Ali, mai vagantiva!

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  4. volevo scrivere: ALI MIA VAGANTIVA!!!

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  5. ieri sera ero stanchissima e non sono riuscita a scrivere questo commento di risposta, frutto di eredità da saggezza popolare
    "la gallina che camminò la borsa piena a casa portò" :DD
    molto intellettuale non trovi?

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  6. mah, sarà! molto borghese?

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  7. non è borghese, vuol dire che lo sforzo del lungo camminare dà i suoi frutti, come te quando vai in montagna :)

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